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Divagazioni sul multiculturalismo

In una vignetta del The Age del 27 luglio che fa il punto con scarna eloquenza ed immediatezza su uno dei problemi più discussi e contraddittori degli ultimi 15 anni, il multiculturalismo, un intervistatore domanda ad un cittadino davanti alla porta della propria casa <<Sei tu contro il multiculturalismo?>> e l’intervistato risponde  decisamente <<Sì!>> ; l’intervistatore allora ribatte <<Sai cosa significa multiculturalismo ?>> e l’intervistato, altrettanto decisamenta <<No>>.

Ci sarebbero decine di osservazioni da trarre da questa vignetta, alcune delle quali ci porterebbero anche molto lontano, fino, addirittura, a farci dubitare della validità della democrazia, ma preferiamo soffermarci su due osservazioni strettamente attinenti al nostro problema immediato espresso cosi eloquentemente dalla matita del vignettista Tandberg.

Prima osservazione: se l’intervistatore avesse, per così dire, rovesciate le domande e si fosse informato prima se l’intervistato sapeva cosa significasse la parola <<multiculturalismo>>, non avrebbe avuto bisogno di rivolgergli l’altra domanda, divenuta ormai superflua.  (Verrebbe da piangere pensando alle considerevoli somme spese per <<educare>> i cittadini al multiculturalismo !)

Seconda osservazione : le indagini demoscopiche possono <<guidare>> anche senza darne l’impressione, le riposte degli intervistati i quali, constretti ad esprimersi con un <<Si>> o con un <<No>>, sono il più delle volte trascinati a reagire in maniera irrazionale.  Ciò spiega, secondo me, perchè, nell’indagine telefonica di un canale televisivo, il giorno appresso, il 15 per cento soltanto degli intervistati (sono stati, dicono, oltre 100 mila) s’è dichiarato favorevole al multiculturalismo, mentre l’85 per cento l’ha bocciato.

Non vorrei essere pessimista, ma credo che la maggioranza stragrande di quell’85 per cento che ha detto <<No>> e di quel 15 per cento che ha detto <<Si>> non sapeva e non sa che cosa significhi <<veramente>> questa benedetta parola, e temo che con altrettanta leggerezza, tanto gli uni quanto gli altri, si esprimerebbero se la sfida dell’implacabile Ruxton fosse accolta e trasformata in referendum, decretando cosi la cancellazione della parola dal vocabolario politico australiano.

Il che non sarebbe un gran male se non si trascinasse anche appresso una condanna irrevocabile dell’essenza del multiculturalismo con la conseguente e inevitabile caccia alle streghe multiculrali in cui verrebbero coinvolte tutte le componenti etniche della società australiana, trascinando così l’Australia indietro di almeno 50 anni ; perché, si voglia o no, l’Australia, ormai, non può non essere altro che multiculturale, se deve continuare ad essere una nazione civile e moderna e proseguire sulla strada del progresso, a pari passo con gli altri popoli della terra.

A meno che questa nazione non sbarri ermeticamente porte e finistre e non faccia più entrare nemmeno un emigrante, limitando l’ingresso ai soli anglo-celtici (che ormai se ne impipano di venire quaggiù, dato che in Europa hanno maggiori possibilità di vita, di lavoro e di guadagni), essa è ormai destinata a diventare sempre più multiculturale e sempre meno anglo-celtica.

Ci avrebbero dovuto pensare prima della grande ondata del 1947 quando gli angloceltici erano l’89, 7 per cento della popolazione, ma non oggi che sono crollati al 74,6 per cento mentre i nati in altri paesi europei sono balzati dall’8,6 per cento al 19,3 per cento e gli asiatici dallo 0,8 per cento al 4,5 per cento.  Se si tien conto poi dell’indice di natalità molto più accentuato tra gli immigrati d’origine europea è ancora di più tra gli asiatici, non è esagerato prevedere un ulteriore crollo della maggioranza angloceltica nel prossimo decennio, alla quale, a meno che non preferisca ristagnare per qualche secolo con una poplazione di 16 milioni d’abitanti su un continente che ne potrebbe ospitare comodamente almeno cinque volte tanti, non resta che da scegliere una componente più europea o più asiatica, o affidarsi alle leggi della natura che governano i processi migratori.

Non è tanto, quindi, questione di accettare o meno un <<ismo >> che può significare tuttto e niente (come tutti gli altri <<ismi>> che la fervida fantasia… filosofica di politici e dottrinari ha saputo in ogni tempo creare e imporre ai popoli), ma è piuttosto necessità di adeguarsi opportunamente ad un fatto irreversibile, di sfrondare quell’<<ismo >> di tutte le scorie e incrostazioni che l’hanno reso indigeribile a tanta burocratico, una comoda mangiatoia per una nuova categoria di professionisti multiculturali, una specie di scala di seta sulla quale si arrampicano mistificatori d’ogni razza, un vaso di Pandora alimentato dai quattrini dell’ingenuo contribuente per beneficare una miriade di gruppi, gruppetti, pseudo-<<consigli>>, pseudo-<<agenzie>> e organizzazioni multiculturali assistenziali, culturali e artistiche, iniziative e indagini conoscitive impensabili e tutto quanto d’altro l’abilità di certa gente riesce a ricavare dalla foresta di provvedimenti emanati, in buona o in mala fede, a beneficio degli etnici che hanno bisogno di aiuti e assistenze particolari e destinati, come tutti ben sanno, a pagare voti e simpatie.

Ed è questo multiculturalismo parolaio, sprecone e interessato che il cittadino comune si rifiuta di accettare perchè gli hanno fatto perdere di vista l’enorme ricchezza spirituale e culturale che popoli di 140 nazioni diverse potrebbero trasmettere all società australiana se fossero lasciati liberi di sviluppare e innestare nel ceppo anglo-celtico i germogli delle proprie tradizioni e della propria cultura, senza essere costretti a lottare, da un lato, contro in preconcetti anglo-celtici, dall’altro contro l’interventismo traviante degli <<apostoli >> di un multiculturalismo per loro politicamente ed egoisticamente redditizio.

Dovremo quindi assistere eternamente a questa diatriba sul multiculturalismo e su ciò che questa parola significa nel vocabolario dei suoi <<paladini>> ed in quello dei suoi detrattori ?  O non sarebbe molto più opportuno smetterla con questa parola che ormai ha smarrito la sua validità semantica, non persistere cocciutamente a giocarsi tutto su un vocabolo sinonimo ormai per moltissimi australiani (ed anche per molti etnici) di arrivismo, opportunismo, sfruttamento e assistenzialismo interessato e pensare invece di ridefinire e aggiornare il concetto <<Australia>> in base all realtà presente dalla quale nammeno quell’85 per cento di australiani che nella recente indagine televisiva ha risposto <<No>> al multiculturalismo può ormai più prescindere ?

Affrontiamo pure, una volta per tutte, i rischi d’un referendum chiesto a gran voce dall’implacabile Ruxton, ma non sul multiculturalismo, bensì su un moderno preambolo alla consituzione che potrebbe essere così formulato : <<L’Australia è una nazione civile e moderna aperta alle genti di tutto il mondo, senza preclusione di razze, colore o fede, uguali tra uguali, tanto nei diritti quanto nei doveri, che la scelgono come sede stabile per loro e per i loro figli, pronti difenderla come ragione prima della loro esistenza e a rispettarne le isituzioni democraticamente elette e consolidate, con il fermo proposito di contribuire con la propria opera, la propria cultura e le proprie tradizioni, liberamente e onestamente professate, al benessere sociale, culturale e spirituale della collettività australiana e all’affermazione del suo prestigio tra gli altri popoli fratelli del mondo>>.

Sono certo che una dichiarazione simile verrebbe accettata dall stragrande maggioranza degli australiani d’ogni ceto e condizione i quali, se si ribellano al multiculturalismo, non lo fanno per odio alle genti d’altre razze o alla diffusione in Australia d’altre lingue, d’altri costumi, d’altre tradizioni, ma a quella che loro avvertono come un’ingiusta ripartizione delle risorse e come uno sfruttamento a benficio di una nuova classe di politici e burocrati che opera in nome di minoranze non sempre bisognose di aiuti particolari.

Se, ad esempio, gli stanziamenti di fondi per le lingue straniere fossero motivati da una necessità di sviluppo sociale, economico e cultrale per tutta la comunità australiana e non in nome del multiculturalismo non credo susciterebbero i malumore e l’astio che attualmente accolgono simili richieste.  E così per tutti gli altri provvedimenti presi o proposti in nome del multiculturalismo non credo susciterebbero i malumori e l’astio che attualmente accolgono simili richieste.  E così per tutti gli altri provvedimenti presi o proposti in nome del multiculturalismo e che in fondo non sono e non possono non essere, che a beneficio ed in nome di tutta la società australiana, ormai indelebilmente segnata dalle culture, dalle tradizioni e dal lovoro di immigrati di 140 nazioni, dapprima accolti come intrusi, ma che hanno saputo, a poco a poco guadagnarsi stima e apprezzamento, anche se molto spesso il rapporto tra due vicini di casa di provenienza diversa si risolve in un <<good morning>>, in un <<good night>> e in un sorriso.

Basta questo, in fondo, per farci vivere in pace con noi stessi e con gli altri; per farci accettare e per accettare.

3 agosto 1989

 

Pace, diritti dell’uomo e solidarietà tra i popoli

È molto strano come si possa essere fraintesi e accusati di faziosità per aver fatto dei commenti su una lettera che Palmiro Togliatti nel lontano 1943 scrisse in riposta al suo compagno Bianco, nella quale <<Il Migliore>> non soltanto negava il suo aiuto per alleviare le sofferenze dei nostri prigionieri di guerra, ma addirittura, asseriva che le sofferenze e la morte di alcune decine di migliaia di prigionieri sarebbero state una lezione salutare per tante famiglie.

A me sembra che mi si accusi di faziosità perché, <<fin dai tempi di Caino, cose di questo genere sono accadute e accadranno sotto i cieli di tutto il mondo>> e che quindi è fazioso chi finge di scandalizzarsene o se ne scandalizza allo scopo di infiammare gli animi.

Si ammette, insomma, la bruttura morale di tanta gente, si ammettono la verità di tanti orrori e di tante nefandezze, ma non se ne dovrebbe parlare né condannare perché brutture morali, orrori e nefandezze ce ne sono stati sempre in tutti tempi e sotto tutti i cieli.

Ma allora, perché parlare ancora delle nefandezze naziste, di quelle staliniane o di quelle americane?  Perché parlare ancora dell’olocausto dei poveri ebrei o poveri giapponesi, i primi nei forni crematori ed i secondi nel forno atomico?  La denuncia della verità non dovrebbe farci meditare e meglio valutare uomini e fatti della nostra vita?  O dobbiamo adoperarci a nascondere con tutti i mezzi quelle verità emergenti improvvisamente quando meno ce lo aspettiamo e che servono a chiarire e definire ulteriormente certi aspetti poco noti della nostra società e degli uomini che nel tempo l’hanno dominata o ne hanno condizionato con la loro personalità e il loro potere la crescita?

Io sono stato sempre, nella mia ormai lunga vita, per la denuncia aperta, anche se essa a volte comporti un prezzo molto alto da pagare, o l’accusa di essere <<morbosamente >> <<ANTI ad orgni costo>>, come mi definisce un signore il quale, non mi conosce, ma ha capito (beato lui) che io sono un anticomunista <<ad ogni costo>> che sfrutta con morbosa violenza un fatto del quale la veridicità è tutta da provare.

Che io sia anticomunista (pur avendo avuto amici carissimi e stimatissimi nel partito comunista) non ho difficoltà ad ammettere che sono <<anti-americano>> perchè non mi sento di approvare certe nefandezze della politica americana che in parecchie occasioni è stata più stupidamente feroce dello stesso stalinismo, così come sono contro il predominio e la prevaricazione da qualsiasi parte politica essa venga: sono contro chiunque opprima la libertà dell’individuo, la sua personalità, la sua libera iniziativa, la sua dignità di uomo: sono contro ogni violenza morale o fisica sull’individuo, il quale ha diritto pieno di esprimersi <<come meglio crede>>, purché non calichi i limiti della decenza e la sfera di libertà degli altri individui.

Quindi, si tranquillizino codesti signori: se ho parlato e scritto denunciando una <<viltà collettiva per nascondere la verità>> l’ho fatto perché è stato proprio il presidente della Repubblica, Cossiga, durante la sua visita nel Friuli che ha testualmente detto che voleva <<porre termine a 40 anni di viltà mia e degli altri capi di governo>> e <<chiedere perdono a coloro che sono morti>>.  Se la prendano, dunque, con Cossiga, per quanto riguarda la <<vità collettiva>>; io non ho fatto che sviluppare quel tema.

Ma perché mi si accusa di <<manipolazione>> quando si ammette poi che la lettera <<può solo far conoscere a chi non la conosce la natura intima d’un uomo che per raggiungere il suo scopo tutto poteva calpestare>>?  Ed ecco la sottigliezza dialettica del mio critico: si sta facendo tutto questo chiasso per far dimenticare GLADIO e finire il comunismo perché solo la fine del comunismo può riaprire la strada a una maggioranza assoluta democristiana e la possibilità di archiviare Gladio>>.

Dopo l’ultima guerra è nata l’espressione <<anticomunismo viscerale>> che si affibbiava a tutti coloro che, a ragione o a torto, riprovavano tutto ciò che fosse di marca comunista ; oggi, invece, potremmo con una piccola sempicissima modifica trasformare quell’espressione in <<comunismo viscerale>> e affibbiarlo a tutti coloro che pretendono difendere il buon nome d’una ideologia al suo inglorioso tramonto, scagliandosi come tanti Don Chisciotte contro tutti coloro che agitano i fantasmi piuttosto malmessi moralmente dei capi storici del comunismo internazionale.  Lo facciamo pure, ne hanno diritto anche loro, ma per carità, non parlino a vanvera e si documentino, prima di scagliare accuse di faziosità e trinciare giudizi ingiusti e accuse di voler fomentare i più bassi istinti dell’uomo: odio, guerra civile e distruzione… da anticomunista ad ogni costo!

A tutti costoro che mi accusano ingiustamente e anche a tutti coloro che mi leggono con simpatia e mi apprezzano, dedico questa mia poesia di giorni lontani, pubblicata e premiata dalla Sez.  Italiana di Amnesty International al concorso <<La pace attraverso il rispetto dei diritti dell’uomo e la solidarietà fra i popoli possono essere parole vane, da strumentalizzare, come in 50 anni hanno sempre fatto i comunisti nostrani e gli anticomunisti viscerali d’una volta e perché non, anche i comunisti viscerali d’oggigiorno.

Papaveri
Papaveri rossi le ferite dei kulaki
aperte nei campi di frumento.
Oscure torme di dolenti genti
cementano con lagrime e con sangue
un nuovo Tempio sulla Ziggurat
al rosso dio dalle gambe corte.
Sulla pietra del cuore è legge : <Morte,
giustizia proletaria !>>
Papaveri rossi sui campi di Dachau
sotto le torri delle sentinelle.
Uncinata alla croce è la follia.
Brucian nei forni crematori
ossa di vivi, gravano i cieli
nembi di cenere, immagini contorte.
Sulla pietra del cuore è legge : <<Morte, ariana procellaria !>>

Papaveri rossi nei giardini di Honshu
tra i cuori gialli dei crisantemi.
Il sole ha gli occhi insanguati :
avvizziscono in un lampo di furore
settantamila crisantemi gialli,
settantamila estratti ad una sorte.
Sulla pietra del cuore è legge : <<Morte,
vendetta libertaria !>>
Papaveri rossi sui campi del mondo
sui prati del tempo fioriscono da sempre.
Tu ed io passiamo tra i fiori
seguendo la trace rosse sull’erba…
Dove ci condurrà la primavera ?...
Già l’atomo c’indìa, ma più forte
è la pietra del cuore e ancora <<Morte !>>
macina l’arenaria

27 febbraio 1992

 

Allarme per l’insegnamento dell’italiano

A quanto pare, stiamo perdendo la battaglia per la diffusione dell’insegnamento della lingua italiana nella scuole de Victoria: alla mancanza di sufficiente interesse e di motivazioni da parte dei ragazzi italiani e delle loro famiglie corrispondono interessi e motivazioni più accentuate per le lingue asiatiche e soprattutto per il cinese e il giapponese e perfino per l’indonesiano.

L’avanzata di queste lingue è soprattutto sensibile negli ultimi anni di studio delle scuole medie statali dove secondo recenti statistiche il cinese ha superato tutte le alter lingue, piazzandosi al secondo posto, subito dopo l’inglese, seguito a ruota dal francese, mentre nei corsi TAFE il giapponese è il linguaggio più studiato.  Il cinese, da parte sua, ha quadruplicate i suoi corsi TAFE.  L’anno scorso, inoltre, per la prima volta, il giapponese ha fatto il suo ingresso nelle scuole elementari con 854 studenti.

Lo studio delle lingue europee, italiano compreso, regge ancora nelle scuole medie, ma non è esagerato prevedere un prossimo declinio tra alcuni anni, se le condizioni percarie in cui esse versano (in particolare l’italiano) perdureranno.  Perché, mentre per il francese, il tedesco ed anche il greco, le rispettive organizzazioni culturali hanno provveduto già da tempo a creare la premesse con i loro istituti bilingui già funzionanti, per la formazione di studenti con una seria e solida preparazione linguistica che possa consentire loro l’accesso a pieno titolo alle università e la conseguente creazione d’una classe insegnanti degna di questo nome, per quanto riguardo lo studio dell’italiano, perdiamo ancora il nostro tempo ed i contributi dei governi italiano e australiano, per sostenere e difendere un apparato scolatico-assistenziale a cui in buona parte è da ascrivere il fallimento (perché di fallimento si tratta) dell’insegnamento della lingua e cultura italiane nel Victoria.

Un apparato scolastico-assistenziale talmente geloso e sicuro del proprio monopolio che si rifiuta perfino di prendere atto dei suggerimenti e delle critiche e di discuterle e dibatterle pubblicamente.

Non sappiamo, infatti, nemmeno quanti ragazzi <<beneficiano>> dei corsi del sabato e dei corsi inseriti, né quanti… insegnanti vengono impiegati negli uni e negli altri, né se essi sono adeguatamente preparati, né se alla fine d’ogni anno scolastico questi ragazzi vengono esaminati e se il risultato del loro apprendimento linguistico sia sufficiente e accettabile, né se il direttore didattico del Consolato ha mai espresso riserve o approvazione per l’andamento di questi corsi e per il loro rendimento, né se le direzioni degli enti preposti hanno mai esercitato pressioni sul Ministero dell’Istruzione statale per l’assegnazione di un numero maggiore di ore settimanali per i corsi inseriti e per rendere obbligatorio l’insegnamento della lingua italiana, né se hanno sollecitato l’intervento della Commissione Affari Etnici del Victoria la quale, tramite l’apposita Government and Community Relations Division, tra i suoi compiti ha anche quello di lavorare <<with ethnic and community organisations to relate the needs and perceptions of ethnic groups to the Ethnic Affairs Commission to assist them in making their needs known to other government departments and to work with ethnic groups on issues of major concern >>.

E a proposito di questa benedetta Commissione Affari Etnici, la cui maggiore preoccupazione pare sia quella di distribuire piccole o piccolissime elargizioni a gruppi, gruppetti e clubs, come un tempo faceva nella parrochie italiane la Società S. Vincenzo de’ Paoli con gli indigenti della parrocchia, non possiamo non rilevare che fin dalla sua creazione, uno dei vicepresidenti è stato sempre italo-australiano e che quindi è sempre esistita una leva in mani amiche che avrebbe potuto sollecitare un intervento a favore d’una maggiore apertura mentale sul problema dell’obbligatorietà dell’insegnamento delle lingue etniche e, per quanto ci riguarda in particolare, della lingua italiana.

A meno che la Commissione Affari Etnici non sia per il governo del Victoria che un semplice paravento, non ci sappiamo spiegare come mai, in tanti anni, la Commissione non si sia affiancata ai gruppi etnici <<on issues of major concern>> come l’obbligatorietà dello studio delle lingue straniere nelle scuole del Victoria e l’assegnazione di un numbero adeguato di ore settimanali indispensabili per il loro apprendimento.

Il vicepresidente attuale della Commissione è l’amico Franco Schiavoni che in una suo articolo pubblicato nel numero di lunedì 7 agosto del settimanale Il Globo, fa straniere nel Victoria e sul <<declino sostanziale del biliguismo nella nostra collettività e dell’insegnamento dell’italiano nelle istituzioni scolastiche e universitarie australiane>> che, prevede anche lui, <<si accelerarà notevolmente nei prossimi anni>>.  Non possiamo non essere d’accordo con lui anche perché queste cose le abbiamo denunciate a più riprese dando origine a quello che egli chiama erroneamente <<dibattito>> (che noi avremmo desiderato, ma che non c’è stato perché nessuno ha ritenuto di <<ribattere>> le nostre argomentazioni) e ci rammarichiamo che nemmeno lui si sia fatto vivo in quell’occasione per contribuirvi <<in modo spassionato e scientifico>>.

Lo fa adesso su quelle pagine presentando tre ipotesi e soffermandosi favorevolmente sulla terza: la trasformazione d’una scuola statale già esistente in scuole bilingue con l’italiano come lingua fondamentale obbligatoria.  Ipotesi, dice Schiavoni, inconcepibile in passato, ma prevista oggi dal recente Language Action Plan del Victoria che prevede <<la possibilità d’istituire scuole bilingui o plurilingui specializzate all’interno del sistema statale>>.

Una scuola del genere andrebbe bene anche per noi, perché sarebbe già un buon passo avanti nella direzione giusta, ma non riusciamo a comprendere perché egli debba scartare a priori un istituto parificato bilingue sovvenzionato dal governo italiano e da quello australiano, in cui le lingue fondementali fossero due, l’italiana e l’inglese, con un programma di tipo umanistico concordato tra i due governi.  Per quanto mi riguarda non ho mai affermato che questa scuola dovrebbe essere <<di tipo italiano all’estero>> e l’amico Schiavoni farebbe bene a darmene atto dopo aver riletto attentamente la serie dei miei sette articoli pubblicati recentemente sull’argomento.  E poi, come fa a sapere che il governo italiano non accetterebbe mai di istituire un istituto parificato bilingue ?  E perché sarebbe totalmente inutile nel contesto australiano attuale ?

Anche la possibilità d’una scuola bilingue era inconcepibile in passato, ma adesso, ci dice l’amico Schiavoni, non più.  E allora, perché dovrebbe essere giudicata inconcepibile nel contesto del Victoria, una scuole bilingue parificata che ai vantaggi della semplice scuola bilingue assommerebbe anche quelli che le deriverebbero dall’essere riconosciuta da entrambe le nazioni?

Tra i vantaggi ci sarebbe la possibilità per lo studente che si trasferisce in Italia in qualsiasi momento del suo tirocinio in una scuola del genere di potere continuare in una scuola italiana senza essere constretto a perdere uno o più anni di studio; la possibilità per lo studente in possesso del diploma finale di poter accedere a suo piacere, tanto ad una facoltà di lingue in un’univeristà australiana, quanto ad una italiana; la possibilità per un ragazzo nuovo arrivato dall’Italia di poter proseguire in una scuola del genere i propri studi senza eccessivi traumi in un ambiente il più possibile vicino a quello abbandonato in Italia.

Non mi sembrano vantaggi di poco conto; anzi mi sembrano meritevoli di maggiore considerazione e necessari del sostegno operoso e fattivo di chi ha veramente a cuore le sorti della nostra lingua e della nostra cultura e il rafforzamento, con i fatti e non a parole, delle nostre radici che sono, in ultima analisi, quelle dell’Italia.

Si dice che la fede muove persino le montagne e noi tutti abbiamo il dovere di aver fede in noi stessi e nella bontà della nostra causa la quale, in questo caso, più che di sostenitori danarosi ha bisogno, soporattutto tra coloro che occupano posizioni di preminenza, di menti aperte e intrapredenti, capaci di proporre in tutte le sedi ed in ogni occasione la migliore soluzione possibile, senza accettare supinamente <<quello che passa il governo>> per tema di spiacere al Padre Superiore o a chi potrebbe venire danneggiato da una svolta reale e positiva.

Più d’ogni altra cosa noi italiani all’estero dovremmo temere l’ignavia, un peccato dal quale, purtroppo, non possiamo dirci esenti e che ci fa <<a Dio spiacenti ed ai nemici sui>>.

 

 

 



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